Decreto trasparenza: cosa prevede e cosa bisogna fare subito per adeguarsi

Un decreto che collega il diritto del lavoro e la privacy

Partiamo da una consapevolezza: il decreto trasparenza ha come focus diversi aspetti legati alla gestione del personale e mette in collegamento due mondi fortemente interconnessi, il mondo giuslavoristico e il mondo privacy.
Quindi i consulenti del lavoro, gli HR manager e i consulenti privacy dovranno necessariamente collaborare a stretto contatto, perché l’obiettivo di questa norma è fare in modo che nelle aziende si creino delle procedure e degli audit affinché tutti i cambiamenti che l’organizzazione stessa, lato personale, metterà in atto siano adeguatamente normalizzati.
Dunque, se, lato privacy, l’azienda è compliant e ha fatto quello che doveva fare, il decreto trasparenza non è altro che un altro tassellino che va a inserirsi nel mondo dell’organizzazione aziendale. Non ci sono grossi stravolgimenti.
Invece, per chi, lato privacy, finora non ha fatto granché, questa è la seconda campanella: è un ulteriore segnale che ci arriva dall’Europa, che ci dice che il rapporto fra datore di lavoro e lavoratore deve essere improntato alla trasparenza. 
Non a caso, il decreto trasparenza è un decreto di ispirazione anglosassone, né più né meno del GDPR, che mira a darci una modalità procedurale di lavorare. Se ci pensiamo, è corretto perché non possono non esistere procedure e sistemi organizzativi all’interno dell’azienda, affinché l’azienda stessa sia produttiva.

Dove nasce il decreto trasparenza

Il decreto nasce da una direttiva del 2019 e già allora l’Unione Europea ci diceva che, nei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro, il primo deve avere ben chiaro quali sono le condizioni di lavoro all’interno dell’azienda.  
Quando si parla di condizioni di lavoro, se ne parla non solo dal punto di vista squisitamente retributivo, ma anche rispetto a vari aspetti previdenziali e assicurativi, e anche a come la modalità di lavoro stessa viene svolta. Non pensiamo al classico lavoratore con l’orario predefinito. Pensiamo, per esempio, ai lavoratori che lavorano su turni.
Questo decreto si inserisce su una prima legge del 1997, che ha integrato – quindi non sostituito – le norme in materia. È importante saperlo perché non c’è una tabula rasa di tutto quello che c’è stato in precedenza.
Di fatto, il decreto trasparenza è un percorso che continua e continuerà, e che ha l’obiettivo di mettere il datore di lavoro nelle condizioni di impattare sia sulla propria documentazione aziendale, che nell’atteggiamento stesso che deve avere nelle informazioni che presterà al lavoratore.

A quali contratti si applica il d.lgs n. 104 del 27/06/2022

Nel decreto non si parla solo di datore di lavoro puro, ma anche di agenzie di somministrazione e committenti. Di fatto la norma andrà a colpire anche i contratti di collaborazione.
Non a caso, il decreto trasparenza tocca:
  • Contratti di lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato, compreso l’apprendistato
  • Contratto di lavoro somministrato
  • Contratto di lavoro intermittente
  • Co. Co. Co, compresi i professionisti a partita IVA
  • Contratto di prestazione occasionale
  • Rapporti di lavoro dei dipendenti di PA ed Enti Pubblici Economici

A quali non si applica?
A tutti quelli che non sono stati indicati.

 

Tempi e modalità di comunicazione

Quando e come consulenti del lavoro, HR e consulenti privacy devono dare l’informazione? Dipende dal lavoratore. Bisogna infatti distinguere tra nuove assunzioni e dipendenti già assunti. 


Nuove assunzioni

Facciamo un esempio. Prendiamo il caso di un’azienda che assume un lavoratore il 13 di agosto – data di entrata in vigore del decreto -, già all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro, nella lettera di assunzione, vanno indicate alcune informazioni, le più importanti, che sono: paga base, orario di lavoro, inizio, fine, periodo di prova.
Nei successivi 7 giorni dall’inizio della prestazione l’azienda può integrare queste informazioni con le regole di dettaglio della normativa. Al più tardi, entro 30 giorni, vanno comunicate per iscritto le ultime informazioni (obbligo formativo, ferie, congedi, recesso e quindi dimissioni e licenziamento, CCNL applicato, enti e istituti previdenziali e assicurativi a cui ci si rivolge).
Quindi non è necessario precipitarsi il primo giorno di lavoro nel fare la comunicazione SARE e poi mettere in piedi tutto il resto. Le procedure ci danno la possibilità di spalmare gli adempimenti.

Dipendenti già assunti

Per i dipendenti già assunti alla data di entrata in vigore della norma, il legislatore dà un po’ più di respiro. Dice che nel caso in cui il lavoratore faccia richiesta di questa informazione, il datore di lavoro o committente ha la possibilità di organizzarsi nel dare riscontro, entro 60 giorni.
Quindi anche in questo caso si è tenuto conto delle esigenze dell’azienda. Immaginiamoci le aziende più strutturate dove, improvvisamente, 100 dipendenti iniziano a chiedere informazioni di dettaglio (sebbene in qualche maniera queste informazioni dovrebbero già essere state date). Il decreto mette nelle condizioni di avere un minimo di respiro.
Tuttavia, suggerisco, soprattutto ai consulenti del lavoro e agli HR, di allinearsi, senza attendere le richieste da parte dei lavoratori.
Infatti, non dare queste informazioni permette al lavoratore non solo di denunciare il datore di lavoro all’Ispettorato (con tutta la parte sanzionatoria), ma anche ai sindacati, che diventano parte attiva in questa nuova normativa. Possono procedere addirittura, nelle condizioni più gravi, a fare ricorsi per condotta antisindacale nei tribunali, ai sensi dell’articolo 28.

Come comunicare le variazioni

Proceduralmente l’organizzazione deve essere strutturata per comunicare tutte le variazioni che avverranno all’interno dell’azienda nei confronti dei lavoratori: modifiche negli orari di lavoro, modifiche economiche, cambi di istituti previdenziali, modifiche di turni e così via.
Peraltro, per alcune di queste, è già previsto che il lavoratore debba essere informato, ma da oggi non ci sono più scuse di alcun genere.
Detto questo, l’azienda deve preoccuparsi di come informare e per quanto tempo detenere queste informazioni. In parte, è un aspetto che vale anche per i consulenti privacy.
Le comunicazioni possono essere fatte a mezzo mail o a mezzo PEC, nel caso in cui il lavoratore sia dotato di PEC.
Le informazioni collegiali – quelle che riguardano indistintamente tutti i lavoratori – possono essere pubblicate sull’intranet aziendale e, per certe tipologie di risorse, si può procedere con la consegna a mano e l’attestazione della ricevuta di consegna.

Le sanzioni previste nel decreto trasparenza

L’apparato sanzionatorio è serio, perché l’obiettivo – che è quello di rendere fruibili, trasparenti e semplici le informazioni ai lavoratori – a quanto pare, per il legislatore europeo è di importanza vitale.
Quindi le sanzioni non sono una tantum, ma sono graduate in base al numero e al tempo in cui la violazione persiste. 
Nell’ipotesi di violazione degli obblighi informativi, che sono diversi – per esempio: non dare l’informazione, darla in ritardo o incompleta, oppure addirittura sbagliata -, si va da un minimo di 250 euro a un massimo di 1500 euro a lavoratore. 
Per quel che riguarda le violazioni che si confermano nel tempo, cioè nel caso in cui il datore di lavoro – o il committente – decida di utilizzare sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzato, a questo si aggiunge anche la sanzione che viene moltiplicata per tanti mesi quanti sono i mesi della violazione.
Per fare qualche rimando al 2%-4% del fatturato delle sanzioni lato GDPR, vediamo che, bene o male, lo spirito è lo stesso, quindi coercitivo.
Fonte: PrivacyLab